Michele Mariotti è la voce di Polyglot Radio, un podcast bilingue dedicato agli italiani che vivono all’estero o agli stranieri che si sono trasferiti in Italia o in altre parti del mondo. Il programma, inserito nell’offerta dei Programmi per le Radio di Consulenza Radiofonica, racconta vita ed esperienze di persone emigrate in nuova terra in modo ironico e giocoso. In questa intervista, Michele ci spiega le caratteristiche di un format molto particolare e complesso.
Come nasce Polyglot Radio e che direzione hai dato a questo format?
Polyglot Radio è dedicato principalmente agli italiani che vivono all’esterno ma, essendo un programma poliglotta, è dedicato anche agli stranieri che decidono di andare a vivere da un’altra parte del mondo. Ad esempio, abbiamo avuto come ospite un belga che ha vissuto a Miami, oppure stranieri che sono venuti ad abitare in Italia dal Lussemburgo, dalla Turchia. I casi sono davvero tanti.
Polyglot Radio viene realizzato principalmente in due lingue: italiano e inglese. Diciamo che è l’inizio di una web radio che sta muovendo i primi passi, per adesso soltanto a livello di prove tecniche di trasmissione. Mi piacerebbe coinvolgere conduttori di diverse lingue, magari portoghesi o spagnoli, insomma è un progetto che viene dalla mia esperienza di direttore di una casa di produzione multilingue. Da anni, infatti, dirigo vo-art, una società che si occupa di prodotti audio in diverse lingue.
Quindi hai portato alla radio quella che è stata la tua esperienza in prima persona?
Esatto, così come per il podcast ho portato la mia esperienza di italiano che ha vissuto all’esterno, e non soltanto a Londra, perché ho vissuto anche un anno alle Isole Canarie, così anche per la radio ho voluto portare quello che faccio quotidianamente. Purtroppo non sono poliglotta, anche se me la cavo con lo spagnolo e con l’inglese, ma a volte non distinguo uno script in mandarino da uno in taiwanese, per questo ho bisogno di collaboratori e gente che mi sappia dare delle dritte.
Come scegli gli ospiti che intervengono nel programma?
Molti degli ospiti che ho intervistato erano proprio degli speaker come me che conosco perché avevano lavorato per la mia società. Sapevo di uno spagnolo che vive da tanti anni a Londra, di un mio collega belga che ha vissuto a Miami, ma sono tantissimi i voice talent che hanno deciso di cambiare vita e di andare a vivere in un’altra parte del mondo.
Quali sono i temi che vengono affrontati maggiormente in Polyglot Radio?
Si tratta di un viaggio abbastanza introspettivo dei miei ospiti che raccontano le loro esperienze, ma ci fanno anche capire perché hanno deciso di andare a vivere da un’altra parte del mondo. C’è chi magari è nato in una valle chiusa da montagne ed ha sempre avuto il desiderio di muoversi verso altre città, lidi più aperti o luoghi di cui ha sempre sentito parlare. Molte volte, però, ci creiamo dei miti quando pensiamo all’estero. Ci sono cose che ci fanno muovere o ci danno delle spinte, ma una volta lì rimani deluso. Sono parzialmente dei sogni, qualcosa che non si avvererà mai. A me ad esempio è successo con New York.
Quante parti diverse del mondo sei riuscito a raccontare con questo podcast?
Sicuramente Londra è una delle più gettonate. Qui ci sono 800 mila italiani, quindi è stato molto semplice trovare ospiti anche tra le mie amicizie e conoscenze. Un’altra località che interessa molto agli italiani, oltre a New York, è Miami. Inoltre anche l’Italia è un posto che attrae molto la gente dall’estero, però poi ci si rende conto che la burocrazia e tutte le cose più complicate hanno luogo proprio in Italia, quindi se decidi di andare ad abitare nel Bel Paese prima o poi ti accorgi che non è tutto rose e fiori.
Gli ascoltatori come accolgono Polyglot Radio, c’è curiosità riguardo la vita all’estero?
Sicuramente c’è molta curiosità. La difficoltà di Polyglot Radio è il fatto di proporlo in lingue diverse. Avrei potuto strutturarlo in maniera diversa, ma sarebbe stato davvero troppo complicato. Per farti un esempio, una stessa intervista si dovrebbe proporre sia in italiano che in inglese, perché a volte il fatto che sia bilingue e che non ci sia una vera e propria traduzione, probabilmente esclude in automatico determinati ascoltatori che non conoscono l’inglese o l’italiano. Però la mia è anche un po’ una sfida.
Credo che in Italia non ci sia ancora la volontà o la capacità di imparare una lingua per viverla. Molte volte, nelle scuole, le lingue si imparano ad un livello base, che non ti può dare niente. Invece penso che nel 2021 almeno una lingua o due, che siano tra le più diffuse, dovremmo conoscerle e cercare di impararle. Certo, l’anno del covid ha impedito a tutti di muoversi e di viaggiare e credo che una lingua si possa imparare bene soltanto viaggiando e vivendo sul posto.
Come giudichi la tua collaborazione con Consulenza Radiofonica?
Beh, è sicuramente una finestra interessante per far conoscere il mio progetto di podcast, anche se in Italia il podcast viene percepito più come un programma radiofonico che uno già conosce e magari poi può riascoltare in un secondo momento. Penso che non ci sia ancora la cultura vera e propria del podcast come realtà a sé stante. Per questo ho cercato anche di dare vita all’idea di una web radio. A differenza di quello che succede da alcuni anni negli Stati Uniti o qui in Inghilterra, gli ascoltatori apprezzano i podcast più di una radio. Lo considerano un programma di riferimento, come quando noi da giovani ascoltavamo le trasmissioni storiche delle emittenti. Adesso invece in Italia il podcast non ha lo stesso peso di quello che può avere un programma in onda su una radio.
Durante la tua esperienza hai avuto modo di farti un’idea anche su come funziona la radio all’estero?
Qui ci sono più realtà territoriali, che sono in assoluto le radio più ascoltate anche fuori da Londra. Se esci dalle metropoli la gente è più contenta se ascolta la radio locale, che racconta quello che succede nella propria area. In Italia invece è un po’ l’opposto, le persone che abitano in campagna magari preferiscono ascoltare i grandi network. C’è da dire, però, che molte volte manca chi vuole investire nella radio locale, che di base può avere le stesse spese di una radio nazionale. Qui invece è un po’ diverso.
Torneresti in Italia a fare radio?
È una domanda difficile. Tornerei sicuramente a fare radio, ma perché non farla da qui? Penso che se mi proponessero di fare radio in Italia cercherei di fare un accordo per riuscire a farla, ma da Londra.
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