Tutti oggi danno notizie, noi proviamo a capirle.
Dovrebbe essere questa la materia solida del giornalismo: capire le notizie, capirle per raccontarle al pubblico seduto attorno al fuoco della quotidianità. Il pubblico della radio, in questo caso, il pubblico di Radio Monte Carlo. La “provocazione” – come la definisce Claudio Micalizio – viene da qui, arriva da una riflessione sulla comunicazione moderna: si fa comunicazione per comunicare? Che cosa si comunica? E come?
La radio ha il privilegio di essere ascoltata, non letta; leggere è dispendioso, il tempo imposto alla lettura potrebbe non essere un tempo consumato volentieri. Ecco perché l’etere risponde all’SOS pigro dell’uomo, l’etere è un bengala sparato nel cielo quando anche il cielo s’è perso. A queste e altre riflessioni risponde Micalizio, l’uomo delle news di RMC, nato comunicatore con una lunga gavetta alle spalle. Mentre la sfera del mondo continua a fare del suo terreno un tracciato staffetta, una fretta innaturale che muta il traguardo.
Com’è fare approfondimento alla radio al tempo in cui tutti vanno di corsa?
Sicuramente è una sfida avvincente e impegnativa ma al contempo una grande opportunità. Una sfida perché siamo,
appunto, abituati a correre sempre e oltretutto viviamo in una società in cui, complici gli smartphone e gli altri device,
veniamo costantemente raggiunti da notizie più o meno importanti: ebbene la radio, che potrebbe apparire perdente rispetto ad altri canali più immediati ma che resta a mio parere il più versatile e pervasivo dei media, mai come in questo momento può giocare un ruolo davvero strategico e sta a noi dimostrarlo quotidianamente. Prendeteun’emittente come Radio Monte Carlo: è in grado di offrire intrattenimento e informazione a ritmo cadenzato per accompagnare ogni ascoltatore in modo discreto nell’arco della giornata ma può comunque stravolgere in qualunque momento la propria programmazione – e di conseguenza anche la routine di chi ci segue – in caso di breaking news per raccontare in tempo reale gli avvenimenti che meritano. Con una differenza: l’ascoltatore sa che se viene interrotta la normale programmazione è per un motivo fondato e la notizia è stata preventivamente verificata e verrà approfondita dalla nostra redazione.
Perché parli di “opportunità”?
Perché la radio può dimostrare di essere competitiva rispetto agli altri media anche nel modo di dare notizie e non soltanto gareggiando sulla tempestività. Il linguaggio dei social e l’omologazione dei media (televisioni e radio in particolare) ormai ci stanno abituando a sentire sempre le stesse notizie, scodellate in modo frettoloso e talvolta anche con le medesime parole fino a dare per scontato che tutti sappiano di cosa si sta parlando. Ebbene, la sfida e l’opportunità che RMC ha scelto di cogliere è proprio quella di provare a rompere questa omologazione: raccontando le notizie con un linguaggio semplice e approfondendo i temi con l’obiettivo di spiegarli al grande pubblico. Il tutto però in modo veloce e immediato, come è proprio di una radio come la nostra. Spesso per sintetizzare la nostra linea editoriale ricorriamo ad una provocazione: tutti oggi danno notizie, noi proviamo a capirle…
Chi è il pubblico che ascolta una trasmissione di pura informazione?
È un pubblico molto trasversale e ovviamente il profilo dipende anche dalla fascia oraria in cui il programma viene proposto: di certo chi sceglie una trasmissione dedicata all’attualità si aspetta di essere informato sulle ultime notizie e sui temi in primo piano. E questo è di base. Poi, come vale per tutti i programmi “di contenuti”, il “nostro” ascoltatore cerca, oltre alla compagnia e all’intrattenimento, anche qualche curiosità ma pure spunti di riflessione per farsi un’idea propria e, magari, poi esprimerla in onda. L’esperienza di “Primo Mattino”, trasmissione in onda già da quattro anni su RMC, insegna che iniziare la giornata informati ma senza stress è possibile; e magari riusciamo a non perdere il sorriso.
A parte per le immagini, cosa cambia tra il giornalismo radiofonico e quello della carta stampata?
Più o meno tutto…. Per il pubblico cambiano i tempi e le modalità di fruizione, per i giornalisti i tempi di lavorazione: in una radio come RMC ogni ora c’è un notiziario ed è – mutatis mutandis – come mandare in stampa ogni volta un giornale diverso con fatti da verificare, notizie da scrivere, servizi di inviati e corrispondenti da concordare e mandare in onda in un prodotto che però non può durare più di tre minuti. Ovviamente sul piano strettamente editoriale cambiano i criteri di selezione delle notizie e il linguaggio con cui le racconti.
La radiovisione ha fatto bene al giornalismo radiofonico?
Mi spiace ma non sono un fan del genere: credo che radio e tv abbiano vocazioni e dinamiche differenti e non sempre le commistioni sono fortunate: a meno che lo scopo della radiovisione non sia soltanto quello di far vedere come attraverso lo spioncino della porta volti e abitudini di chi altrimenti sarebbe solo una voce… L’informazione radiofonica è uno degli ambiti più rischiosi: se già per una tv all news, quindi con mezzi e risorse adeguate, è difficile poter raccontare ogni avvenimento con le immagini appropriate, figuriamoci per una radio! Ma mentre una tv senza immagini “può comunque fare la radio” e riuscire quindi a servire la causa, una radio senza immagini… rischia di evidenziare ulteriormente i propri limiti. E dire che grazie alla capacità evocativa propria del mezzo, per far vivere un avvenimento alla radio basterebbe un telefono e un giornalista capace di raccontare quello che sta accadendo.
Sono tempi duri per il giornalismo italiano, no?
Temo di sì. Alle difficoltà e alle incertezze provocate dalla crisi degli ultimi anni, si aggiungono le incertezze e le fragilità del sistema italiano che per vari motivi oggi rischia di non poter recuperare più lo splendore di un tempo. In un paese in cui da sempre si comprano pochi giornali e ancora meno libri ma in cui ormai si sta tutto il giorno chini a leggere le notizie su smartphone e pc, la speranza è che gli editori trovino il modo di riavvicinare il pubblico alla carta stampata o, in alternativa, di far fruttare davvero il web. Fino ad allora, radio e tv – con le loro strutture giornalistiche – continueranno a rappresentare una fonte attendibile di notizie contro il mare magnum della rete.
Mi sembra di capire che oggi fare giornalismo, soprattutto per i giovani, sia molto difficile.
Sì, anche se paradossalmente in questo contesto il mercato avrà sempre più bisogno di giovani: in un settore piuttosto chiuso e già da tempo caratterizzato da precariato e inoccupazione, le redazioni tradizionali andranno affollandosi di colleghi con i capelli grigi che, se riusciranno a evitare licenziamenti o ristrutturazioni, potrebbero correre il rischio di avere come principale obiettivo il raggiungimento della pensione. In attesa che i soldi ricomincino a girare come un tempo, un editore che dovrà assumere avrà bisogno di risorse performanti e possibilmente poco costose e l’identikit premia inevitabilmente le nuove generazioni. Resta da capire come faranno a trovarli e, specularmente, come faranno i giovani a fare esperienza.
Magari in passato bastava bussare alla porta di una redazione locale e si iniziava. E ora?
Ora rischia di essere tutto più difficile, perché soprattutto in ambito radio televisivo negli ultimi anni si sono spente diverse emittenti locali che svolgevano il ruolo di palestre in grado di scovare e poi formare talenti e professionisti capaci anche di spiccare il volo verso realtà nazionali. Questo penalizzerà gli aspiranti giornalisti, che avranno meno porte cui bussare e dunque meno chance di imparare ma soprattutto di farsi notare, ma creerà problemi anche alle redazioni nazionali che non potranno contare sull’attività di selezione svolta inevitabilmente dalle emittenti locali.
Il tema delle fake news è diventato centrale: il mestiere del giornalista sembra aver perso credibilità.
Se oggi le fake news rappresentano un problema è perché, a mio parere, da tempo l’informazione ha perso di credibilità: non saprei dunque dire se sono causa o effetto del problema ma certo le “bufale” ci sono sempre state e incontrarle sul proprio cammino era uno spauracchio da evitare con attenzione per evitare danni alla propria credibilità. Oggi come antidoto si scopre il ‘fact checking’ che è diventato il nuovo “mantra” da sbandierare come elemento distintivo della linea editoriale. Ma mi chiedo: la verifica dei fatti e delle fonti non dovrebbe essere da sempre alla base della nostra attività professionale? Se lo riscopriamo oggi, è perché ad un certo punto abbiamo smesso di fare i giornalisti con il giusto scrupolo e secondo i dettami della professione? Sembrano provocazioni ma non lo sono: se oggi gli italiani credono alle fake news veicolate dai social network e da siti improbabili è perché hanno smesso di fidarsi delle testate ‘serie’, che magari a loro volta hanno anche contribuito a diffondere notizie più o meno veritiere per aumentare audience o diffusione se non addirittura per altri interessi”.
Cosa pensa delle scuole di giornalismo?
Che insieme alle facoltà di scienze della comunicazione rischiano di sfornare disoccupati qualificatissimi. Ce ne sono troppe e forse non tutte adeguatamente strutturate per offrire agli iscritti tutti gli strumenti per essere competitivi nel mercato del lavoro. Le scuole più serie offrono un plus preziosissimo ai propri studenti che può fare la differenza rispetto all’aspirante giornalista di formazione naif che bussa alla redazione dopo la classica gavetta: lo stage, che se fatto bene può ancora rappresentare il miglior biglietto da visita per riuscire ad entrare in una redazione. Ma se chi forma e seleziona i candidati non è all’altezza o magari non tiene conto delle peculiarità dei singoli, rischiamo di mandare a fare tirocinio in radio chi magari è portato per scrivere per una rivista e viceversa. E lo stage diventa un’occasione sprecata.
Un tempo si diceva che il giornalismo era un mestiere per ricchi di famiglia.
Non so se lo sia mai stato davvero un mestiere per ricchi ma certo vivere di giornalismo oggi rischia di diventare sempre più difficile… Ne sanno qualcosa le tante migliaia di giornalisti precari e sottopagati che tuttavia rappresentano l’ossatura del sistema informativo italiano. Se oggi vivo di questo lavoro, lo devo ai miei genitori che per anni hanno creduto in me anche quando ho rinunciato a laurearmi e mi hanno supportato anche economicamente nei 13 anni di gavetta come freelance: ma io ho avuto la fortuna di iniziare le prime collaborazioni da adolescente quando andavo in quarta ginnasio e questo mi ha permesso di ammortizzare meglio gli anni in cui ero pagato con una manciata di lire e di crescere step by step dai giornali locali fino ai network nazionali. Ma chi oggi si affaccia senza raccomandazioni al mondo del lavoro dopo una laurea e magari un master e qualche stage non retribuito, quando può pensare di conquistarsi l’autonomia economica?
Come deve essere il gr tipo, quello fatto bene?
Spero assomigli tanto a quello che da due anni cerchiamo di fare ogni ora su Radio Monte Carlo e che ho provato a spiegare in apertura di chiacchierata: in 3 minuti cerchiamo di dare una panoramica delle notizie più importanti, senza trascurare anche arte e cultura, provando ad approfondire le notizie più complesse con un linguaggio semplice e immediato.
Che ne dice della radio del futuro, la radio in digitale?
Non so se in Italia ci sarà mai lo switch-off, come accadde per il mercato televisivo con il passaggio dall’analogico al digitale. Di certo, la radio non ne patirà perché sta dimostrando da anni di essere un mezzo versatile, in grado di rinnovarsi e innovare: avrebbe dovuto patire l’avvento della tv, di internet, della musica digitale e invece è ancora viva e vegeta. Credo che la radio, intesa come prodotto fatto di musica e contenuti, sia un mezzo eterno: sono cambiati e continueranno a cambiare i supporti tecnologici per la sua fruizione ma la magia radiofonica resterà insostituibile.
Che fine farà il giornalismo italiano?
Non ne ho idea ma spero sopravviva ancora un po’, almeno fino a quando arriverò alla pensione. Vorrai mica che inizi a lavorare davvero alla mia età?
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